Nonostante la saga dei “Pirati dei Caraibi” la pirateria può essere considerata un fenomeno antico quanto la navigazione stessa e, nel corso dei secoli, diffuso praticamente in ogni parte del mondo. Tra l’altro, come dimostrano i numerosi arrembaggi a navi commerciali nel golfo di Aden e negli stretti di Malacca e di Singapore, tale pratica non ha mai cessato di esistere, essendo esercitata ancora oggi.
Per un lunghissimo periodo però, grossomodo dal XIII alla metà del XIX secolo, anche la pirateria si istituzionalizzò con l’introduzione delle cosiddette “Lettere di Corsa” che distinguevano il pirata: a tutti gli effetti un bandito che operava per proprio conto al di fuori di qualsiasi regola e di ogni norma, un nemico insomma dello stato, dal corsaro che esplicava la sua attività: nel rispetto di regole precise e sotto il controllo del paese di cui batteva bandiera, che gli forniva una speciale autorizzazione.
In realtà nel tardo medioevo, e particolarmente in Sicilia, non era sempre agevole stabilire con precisione i confini tra queste due pratiche, che in ambito mediterraneo finirono sistematicamente col confondersi.
Il linguaggio usato nella documentazione presenta infatti ampi margini di ambiguità poiché, anche nel caso di autorizzazioni concesse dall’ammiragliato, veniva genericamente usata l’espressione “ad piraticam exercendam

Occorre considerare che la pirateria era prima di tutto un affare molto lucroso e non solo per chi la praticava ma anche per l’erario pubblico che incamerava, oltre al prezzo stesso delle “licenze”, anche la quinta parte dei bottini predati e riscuoteva per ciascun viaggio il pagamento di una tassa, che variava a seconda del tipo di imbarcazione utilizzata.
I pirati, specie quelli siracusani erano ampiamente coinvolti tra l’altro nel commercio degli schiavi attività, anche questa, che rendeva buoni introiti sia ai pirati che alla corona.
Nonostante le concessioni rendevano legittima la pirateria solo contro “i nemici e i traditori regi” il problema più ricorrente era però l’indiscriminato assalto che i pirati rivolgevano praticamente contro ogni imbarcazione che solcava i mari siciliani e spesso anche contro genovesi, catalani e veneziani, alleati dei siciliani.
Di fatto i documenti del tempo dimostrano che la pirateria, da qualunque nazione provenisse, era una guerra di rapina che non risparmiava praticamente nessuno.
Ciò determinava continue crisi come nel 1326 quando, durante uno scontro navale con delle navi veneziane, alcuni siracusani restarono uccisi. Tra questi Nicolò Ventimiglia il quale, seppur probabilmente coinvolto nelle azioni di pirateria a danno dei veneziani, era anche uno dei personaggi più in vista della città ed esponente di una delle più importanti famiglie siciliane.
La morte del Ventimiglia animò gli animi dei siracusani al punto che in città si scatenò una vera e propria caccia al veneziano che ebbe come conseguenza la morte di alcuni di questi e un forte inasprimento dei rapporti diplomatici.
Successivamente, al fine di scongiurare attacchi indiscriminati, ai pirati fu richiesto di versare una cauzione fideiussoria come copertura di eventuali danni, tuttavia, ciò non dovette produrre l’effetto sperato come dimostra la vicenda del più famoso tra i pirati siracusani, Ughetto di Lanzano.
Questi nel 1357 ebbe concesso da re Federico IV di esercitare la pirateria “armando galee, legni e altri navi” nella sua base presso la Motta di San Calogero in territorio di Augusta, che aveva ricevuto in feudo dal re, probabilmente nel 1355, dopo che la corona aveva incamerato i beni dell’ordine militare di Santiago.
Che il Lanzano, piuttosto che un semplice pirata fosse prima di tutto “un uomo del re” appare evidente nel luglio del 1358 quando, ”in considerazione dell’aiuto prestato da questi con una sua galea contro i nemici, che occupavano Aci”, fu esentato dal pagamento della quinta parte del bottino e dagli altri diritti dovuti per l’esercizio della pirateria. Nel 1360, però, dato che tale concessione risultava lesiva dei dritti dell’ammiraglio Corrado De Aurea, il re si vide costretto a revocargli il privilegio.

Dopo i fatti del 1326, con la messa in mare delle navi del Lanzano, gli attacchi alle navi veneziane ripresero vigore al punto che il doge inviò a Siracusa una squadra navale composta da quattro galee armate, allo scopo di proteggere la propria flotta commerciale.
Forti della loro potenza navale gli ambasciatori del doge imposero al re la punizione dei pirati e, in risarcimento per i danni subiti, la somma di 8.000 ducati. Una “concordia generale” fra Federico IV e Andrea de Alvedo, procuratore del doge di Venezia, fu firmata a Catania nel 1366, l’accordo prevedeva un risarcimento per la “Serenissima” intanto lievitato a ben 20.000 ducati.
L’inchiesta che ne scaturì individuò tra i maggiori responsabili proprio Ughetto Lanzano e il suo socio Pietro Bernardo, che furono condannati a risarcire, con i propri beni, la metà dell’intero importo.
Negli stessi anni, seppur su scala minore, esercitavano la pirateria a Siracusa anche il notaio Simone Campolo, che prese di mira diverse navi genovesi, Lorenzo de Aurubella e Anselmo de Odierna.
Anche loro non erano però solo pirati ma esponenti di quel ristretto novero di famiglie che rivestivano i più importanti incarichi pubblici e gestivano le gabelle della città di Siracusa.
Per saperne di più:
Rossella Cancila, Corsa e pirateria nella Sicilia della prima età Moderna, in Quaderni storici, Vol. 36, Nr. 107, 2001.
Antonino Marrone, Repertorio degli atti della Cancelleria del Regno di Sicilia dal 1282 al 1390, in “Mediterranea-ricerche storiche”, 3A edizione, Palermo, 2012.
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